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La struttura sanitaria è tenuta a risarcire il danno sofferto dal paziente in conseguenza della diffusione di dati sensibili contenuti nella cartella clinica, a meno che non dimostri di aver adottato tutte le misure necessarie per garantire per garantire il diritto alla riservatezza del paziente e ad evitare che i dati relativi ai test sanitari e alle condizioni di salute del paziente stesso possano pervenire a conoscenza di terzi.

Ad esempio la Corte di Cassazione (Cass. 2468/2009) ha ritenuto che vi fosse una lesione del diritto alla privacy, ed indi un diritto al risarcimento del danno, di un soggetto dalla cui cartella clinica risultava essere omossessuale affetto da HIV, notizia indebitamente diffusa perché agevolmente accessibile dalla documentazione custodita nella sala infermieri.

Peraltro coloro che esercitano la professione sanitaria non possono raccogliere, al momento dell’accettazione, informazioni sulla sieropositività del paziente che si rivolge allo studio medico, a meno che ciò non risulti indispensabile per il tipo di intervento o terapia che si deve eseguire.

Ed in ogni caso il dato sull’infezione da HIV deve essere raccolto direttamente dal medico e non dal personale amministrativo, e sempre con il consenso del paziente.

Nel caso in cui il medico venga a conoscenza di un caso di AIDS o di HIV, oltre a rispettare specifici obblighi di segretezza e non discriminazione nei confronti del paziente, ha l’obbligo di adottare ogni misura individuata dal codice della privacy e per garantire la sicurezza di dati sanitari

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